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Federico Zuccari

45,60

e la professione del pittore

di Elisabetta Giffi
Postfazione di Paolo Procaccioli

Roma, 2023, formato cm 17×24, pag.296, illustrazioni a colori e in bianco e nero

ISBN 9788875754372

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Descrizione

Federico Zuccari (1539/1540-1609) «mandò in stampa alcune sue bizzerrie, e pensieri circa la nostra professione». Così scriveva nel 1642 Giovanni Baglione, che con lui aveva vissuto la stagione eroica del principio dell’Accademia dei pittori, scultori e architetti romani. Quelle stampe famosissime, i suoi «pensieri circa la professione», erano invenzioni morali che traevano occasione dai fatti “realmente accaduti” per assumere forma di favola e divenire materia comune di riflessione e insegnamento. Ammantate di una veste allegorica tanto eloquente da modellare l’immaginario sociale degli artisti europei per oltre un secolo, tali invenzioni erano rivolte principalmente ai giovani pittori, che andavano instradati per l’arduo cammino della virtù, fatto di studio e fatica intellettuale, e sottratti alla dimensione del lavoro meccanico della bottega e alla logica vile del mero guadagno, come anche alla servitù nella corte, alla mortificante dipendenza dal principe di turno. Zuccari, pittore e intellettuale inquieto e coraggioso, viaggiatore e utopista, aveva formato la propria “moderna” sapienza mediatica in gioventù, a Venezia, nella bottega di Tiziano e a stretto contatto con il mondo della tipografia. La Venezia dei “poligrafi”, di Pietro Aretino, Anton Francesco Doni, Lodovico Dolce, era un mondo di pensiero che lo conquistò definitivamente e gli prestò i propri temi: quello anticortigiano e quello, economico, del giusto compenso delle fatiche dei “poveri virtuosi”, dell’onorato riconoscimento della virtù, presupposto necessario a una possibile autonomia del lavoro “culturale”; gli diede, infine, la prospettiva dell’accademia, regno ideale della concordia tra le arti e, nella realtà, punto di arrivo necessario al riscatto sociale delle professioni “del disegno”. Così, già in vita, Zuccari divenne per i pittori, non solo romani, il protagonista leggendario di battaglie combattute apertamente («io sono huomo schieto e senza artifitio alcuno dico la verità») e sempre in nome della libertà della virtù e dei virtuosi, perché, come ebbe a dichiarare, impavido imputato in un procedimento giudiziario, «la virtù nel bianco scrive quel che li pare».

Elisabetta Giffi ha pubblicato numerosi saggi sulla pittura del Cinque e Seicento. Ha dedicato quindi i suoi studi all’attività editoriale della Calcografia Camerale e alla storia della sua collezione di matrici incise. Con il suo ultimo lavoro, Colin Morison (1734-1809). Antiquaria, storiografia e collezionismo tra Roma e Aberdeen (2016), ha indagato le matrici letterarie e antiquarie della riscoperta britannica dei “primitivi”.